Relegato
inspiegabilmente fra i ricordi sbiaditi degli appassionati del genere
melodico, il disco di debutto dei fenomenali Shadow King, rappresenta il
classico esempio di come a volte si possano commettere degli errori
irreparabili se ci si lascia manipolare incoscientemente dalle imperanti
leggi di mercato, leggasi pure MTV, che, quasi costantemente, ci
impongono i nuovi fenomeni cercando di “valorizzare” di volta in volta
l’esplosione delle nuove tendenze musicali del momento.
Un disco
dunque che, a quasi tre lustri di distanza dall’uscita ufficiale, brama
ancora famelica vendetta, anche perché sia per la qualità del
songwriting presente, sia per il carisma dei vari musicisti chiamati in
causa per l’occasione, quest’album non può di certo passare inosservato.
Infatti, quelli che in pochi ricordano,perché all’epoca sviati da
altro, è che i Shadow King erano a tutti gli effetti una big band, che
poteva contare sulla forza espressiva e canora di un vecchio marpione
come Lou Gramm già con i Foreigner, autore di un paio di dischi solisti
di poco richiamo, sul talento chitarristico dell’axe man Vivian Campbell
(all’epoca ex Dio, Whitesnake e Riverdogs), e su di una sezione ritmica
di tutto rispetto formata dall’ex Warrior e Black Jack Bruce Turgon al
basso, e dall’ex Harlow e The Godz Kevin Valentie on the drums. Un solo
concerto all’Astoria Theatre di Londra, all’interno del tour itinerante
American Dream, promozionato dalla catena di negozi di dischi Shades
Store, ed un misero contratto per un disco con la Atlantic, ecco i
numeri ufficiali di questa band che, nonostante una sfavillante
produzione a cura dello storico Keith Olsen, non seppe imporsi
all’audience americana, finendo per essere inghiottita in un vortice
cremisi nel giro di qualche mese.
Eppure come
detto poc’anzi, la qualità delle composizioni dei nostri, rasentava
quasi la perfezione, con la coppia Gramm/ Turgon, vecchi compagni di
tante battaglie, sugli scudi, e che, oltre a firmare nove delle dieci
composizioni di questo disco, tenta in tutto e per tutto di riportare in
auge il sound della band madre, arrivando a volte a commettere un vero e
proprio plagio, irrobustendo il proprio songwriting di atmosfere
delicate e suadenti, tanto hard melodico e guitar lick veramente
vertiginosi, mai prima d’ora si era sentito un Campbell così determinato
ed ispirato, che richiamano alla mente le alterazioni arpeggiate del
buon Mick Jones, il tutto sormontato degli arrangiamenti, forse un
tantino ridondanti, ma sempre espressivi e carichi di pathos, pennellati
dall'hammond suonato dallo stesso Turgon. Da parte sua il vecchio Lou
tira fuori dal proprio cilindro magico una prestazione maiuscola e
d’altri tempi, molto più incisiva e determinante rispetto alle sue
opache prestazioni da solista, così che brani della caratura della
sfavillante This Heart of Stone, con il suo incedere che si divide fra
partiture AOR e reminiscenze molto più pomp/rock, o l’hard cromato e
celestiale di What Would it Take, sembrano quasi richiamare alla mente
le scorribande sonore dei vari Giuffria, House of Lord, Bad English e
degli stessi Foreigner, ed anche quando il pensiero di una band
costruita a tavolino, per cercare di raggranellare qualche soldo, si fa
sempre più insistente, ci pensa l’hard/pomp di Once upon a Time prima, e
le propensioni più melodiche e delicate di Don’t Even Know I’m Alive
dopo, a fugare ogni dubbio sulla validità di questo disco.Un
songwriting raffinatissimo contraddistinto da arrangiamenti lineari ed
asciutti, ecco gli elementi che fanno capolino su brani della caratura
di Boy, class metal song sostenuta da un imperioso wall of sound
chitarristico e dalle splendide propensioni molto keys oriented, e
Danger in the Dance of Love, dal ritornello molto orecchiabile e dalle
atmosfere quasi sensuali, e se il pop/rock, mascherato da AOR, di No
Man’s Land, può sembrare roba di normale amministrazione, il gran finale
è di totale appannaggio di Russia commovente ballad, delicata e
toccante, a tratti veramente da brividi, scritta a quattro mani dalla
coppia Campbell/Gramm.
Un disco di questo spessore
artistico, che nonostante non venga accolto in maniera calorosa dalla
stampa specializzata dell’epoca, funge per il gran ritorno di Lou Gramm,
che porta con se Bruce Turgon, in seno ai Foreigner di Mr. Moonlight,
mentre se Vivian Campbell viene chiamato dai Def Leppard a sostituire lo
storico Steve Clark, Kevin Valantine fa una breve apparizione nei
Cinderella del controverso Still Climbing per poi far perdere le tracce
di sè. Se questo platter fosse stato pubblicato qualche anno prima,
avrebbe sicuramente goduto dei giusti riconoscimenti, ma con i “se” e
con i “ma” non si giunge a nessuno conclusione logica, quindi non resta
che ripeterci, questo debutto auto intitolato degli Shadow King è
sicuramente un album da rivalutare; quindi se lo vedete in giro in
qualche mercatino o in qualche negozio dell’usato, fatelo vostro, anche
perché sono soldi spesi bene.
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