sabato 2 aprile 2016

Dreamstreet - Heartzone

Chissà quanto sarà stato frustrante registrare delle composizioni qualitativamente eccelse e poi raccogliere poco più che briciole... Potrebbero sintetizzarsi con queste parole le vicissitudini che si legano al trascorso artistico degli statunitensi Dreamstreet, poco più che una leggenda metropolitana fino all'uscita di questo disco “fantasma”, rimasto per anni a prendere polvere nei sottoscala di qualche cantina ammuffita, fino a quando la sempre vigile Retrospect Records, non ha deciso di pubblicarlo qualche anno addietro.
Formati attorno ad un manipolo di ottimi musicisti attivi nell'area di Cleveland, i chitarristi Ron Redfield e Tony Artino, ed il batterista Nick LePar, questi ultimi finiranno entrambi nei Defcon, l'idea di base del progetto Dreamstreet era quello di trovare uno sbocco discografico che riuscisse ad unire la passione per la musica suonata, e la possibilità di garantirsi una certa “solidità” remunerativa, a tal uopo, per dare un taglio professionale al proprio operato, la band decide di affidarsi al produttore/ingegnere del suono Kevin Valentine, batterista attivo in passato come membro di Godz, Donnie Iris, Shadow King, Neverland e The Innocent.

David Carl Band - Can't Slow Down

Enfant prodige della scena musicale di Chicago, ha soli nove anni quando, come batterista, parte con la band del padre per un festival bluegrass, David Carl si innamora ben presto della chitarra, e dopo un periodo intenso di rodaggio, a sedici anni è uno dei musicisti più richiesti della sua zona, grazie soprattutto all'energia positiva che riesce a ricreare con la sua band dal vivo.
Ed è proprio ad uno di questi concerti che viene notato dal talent scout, nonché produttore di fama internazionale Frank Pappalarado, già al lavoro dietro la consolle di nomi altisonanti come Yes, Styx, Bon Jovi, Foreigner, Keally Keagy solo per nominarne alcuni, il quale audiziona la band per alcuni provini nel suo Legacy studios, frequentato all'epoca, in maniera assidua, dal tastierista Jim Patrick (Survivor, Pride of Lion).
Anche mr”Eye of the tiger” rimane positivamente impressionato dall'estro e dalla spontaneità del ragazzo, suona la chitarra in maniera egregia e canta divinamente, tanto che, dopo le prime prove, i due incominciano a scrivere del materiale per la registrazione di quello che sarà il disco di debutto della band.

giovedì 31 marzo 2016

Vinnie Kay - Where do we go from here

Nonostante qualcuno la possa pensare diversamente, anche gli anni nonvanta ci hanno lasciato delle perle nascoste del genere melodico, sicuramente non dei capolavori eccelsi, ma una serie di album che, ne siamo sicuri, potrebbero farvi rivivere nuove ed antiche emozioni.
Produttore, compositore, arrangiatore, l'olandese Vinnie Kay, oltre a condividere più volte il palco con i vari Zinatra, Valentine, 1st Avenue, è il classico musicista polivalente che riesce a cavarsela discretamente bene con diversi strumenti, soprattutto quando imbraccia la sei corde, ed è proprio grazie a questa sua innata abilità di fine cesellatore di splendide armonie, che il qui recensito

mercoledì 30 marzo 2016

Joe Pasquale - Prey

Nonostante le origini europee, francesi per la precisione,  Joe Pasquale è originario di Minneapolis e, prima di dedicarsi ad un'intensa attività di songwiter e musicista da studio, è stato il vocalist/mentore del progetto Boys Club, sorta di piccola leggenda undergound con un album all'attivo su major, passati alla storia come risposta in salsa R&B dei più quotati Wham.
E proprio per scrollarsi di dosso l'appellativo di clone del più quotato George Micheal, approdato nell'assolata Los Angeles, l'estroso singer in questione, decide di cambiare pelle e registro musicale, e di cimentarsi all'interno di un estenuante tour de force a base di corroborante melodic rock dalle marcate influenze pop, dando forma, ma soprattutto sostanza, ad un variopinto mosaico sonoro che risplende d'una intensa brillantezza e raffinatezza.

King of Hearts - King of Hearts

Emozionante!!! Non ci sono altri aggettivi per descrivere in sintesi quello che si cela fra i solchi del disco di debutto degli statunitensi King of Hearts, sorta di super gruppo nato dalla collaborazione fra due dei più quotati musicisti della scena West Coast americana come il singer Tommy Fundrburk, passato alla storia come l'ugola d'oro degli stellari Airplay del duo Graydon/Foster, e del chitarrista, produttore, songwriter Bruce Gaitsch, già al lavoro con mostri sacri del calibro di Micheal Bolton, Chicago e Richard Marx.
E fu proprio durante le sessioni di registrazioni di  "Repeat offender" del singer americano, che vennero gettate le fondamenta per il proseguo artistico della band, che si completava anche grazie all'operato di altri pezzi da novanta come il batterista/cantante Kelly Keagy dei Night Ranger, George Hawkins della Kenny Loggins band al basso, e quel Bill Champlin dei Chicago alle tastiere.

domenica 27 marzo 2016

Gran'ma Monkey - Roots

I Guns'n'Roses italiani. Già, fu proprio con questo appellativo alquanto oneroso che l'allora intraprendente One Way Records volle lanciare sul mercato discografico i new comer Gran'Ma Monkey, band proveniente dal sud dello stivale, precisamente da Cosenza, sconosciuta ai più, ma che vedeva militare fra le sue file l'acclamato singer Kelly Gray, autentico girovago della scena hard rock italiana, con un passato speso fra Nasty Licks e Laroxx, band con la quale era riuscito ad approdare addirittura in territorio americano, riuscendo a pubblicare pure un unico disco su cassetta, e ad esibirsi nei migliori locali del Sunset Strip, fra i quali il celebre Troubadour.
E a pensarci bene, la definizione di nuovi "gunners" si addiceva molto alla street gang tricolore, infatti come i loro idoli americani, anche i cinque musicisti di casa nostra riuscivano ad amalgamare le più disparate influenze musicali in un unico contesto sonoro, riuscendo nel non facile compito di far convivere la rabbia e l'irriverenza di un certo punk inglese, l'hard rock mainstream tipico di band di una certa levatura internazionale come Led Zeppelin, Aereosmith e Rolling Stones, con l'amore incondizionato per il blues più sporco e fumoso, il tutto naturalmente riletto in una chiave abbastanza personale, per un cocktail sonoro finale ad alta gradazione alcolica davvero inebriante.

Bang Tango - Dancin on coals

Los Angeles fine anni ottanta, una scena musicale viva e pulsante, anche se completamente dominata dall'avvento di decine e decine di band affamate di successo pronte a tutto pur di cavalcare l'onda anomala dell'esplosione dello street/glam genere in cui, molte volte, contava più l'immagine ed il look, che la proposta musicale ed artistica fine a se stessa, un genere che, dopo gli ultimi colpi inflitti dai vari Poison e Motley Crue con i loro Flesh and Blood e Dr. Feelgood, sembrava aver detto tutto o quasi. Potete ben capire che, per reiuscire ad emergere da questa sorta di marasma generale, servivano delle soluzioni alternative, qualcosa di diverso, di realemnte interessante e che non fosse sempre e comunque la solita "roba" trita e ritrita, insomma qualcosa che restituisse credibilità e vitalità ad un genere che, di li a poco, avrebbe esalato l'ultimo respiro.
Si, è sempre stato difficile essere degli innovatori, soprattutto in un genere musicale come l'hard rock di scuola statunitense in cui gli schemi propositivi e sonori propendono sempre verso un'unica direzione, ancor di più se si arriva ad incidere un disco totalmente agli antipodi del platter precedente che invece ha ottenuto i massimi riconoscimenti da parte di pubblico e critica, ed è stato acclamato da più parti come l'esempio da imitare per arrivare ad ottenere il sostegno dei media, quello stesso successo che ti regala fama e popolarità quando sei cool, ma che ti gira le spalle al primo segno di cedimento, ecco in poche parole cosa è successo realmente ai grandiosi Bang Tango ed al loro splendido Dancin' on Coals.

L.A.Guns - L.A. Guns

Sporchi, marci, viziosi, questi ed altri aggettivi non riuscirebbero a spiegare neanche minimamente quello che hanno voluto significare gli L.A. Guns per il popolo di rocker incalliti degli anni ottanta, una band che, assieme ai "cuginetti" Guns'n'Roses, ha rappresentato per anni la parola eccesso nell'accezione più classica del suo significato, e che è riuscita a tramutare lo sleazy da semplice genere musicale, a vero e proprio stile di vita. Cinque musicisti che si trascinavano dietro tutta la rabbia e la disperazione di chi è cresciuto nei ghetti delle grandi city americane, e che, ora, si trovava a lottare contro una realtà ostile segnata da piaghe come alchool e la droga, ecco chi erano realmente gli L.A Guns, una band che, ben presto, diventerà un vero e proprio simbolo di una generazione, forse allo sbando, ma che si rispecchiava quasi interamente nei testi, a volte davvero deliranti, messi in musica dalla band losangelina.

Benny Mardones - Benny Mardones

Basta, è ora di dire la verità senza più nascondersi dietro neologismi scontati e minimalisti, Berny Mardones è stato uno dei migliori vocalist americani appartenuti alla scena melodica degli anni ottanta, e non dico fesserie, forse se non il migliore, sicuramente uno di quei quattro/cinque cantanti in grado di competere a testa alta con chi, sto pensando ai vari Richard Marx, Micheal Bolton, Eddy Money, ha saputo farsi strada anche nel mondo del più patinato pop rock vendendo anche milioni e milioni di dischi, ma perdendo di strada quell’integrità artistica che il buon Benny, di par suo, ha saputo mantenere inalterata nel tempo. Con una carriera artistica iniziata agli albori dello scorso decennio, il disco di debutto è addirittura del 1980, ed infarcita da collaborazioni di varia natura, ne sa qualcosa il giovane Bonjovi e i suoi Powerstation, l’ex police man proveniente dal distretto del New Jersey, è riuscito nel suo piccolo, a lasciare il segno nell’infinito mondo del music business con pubblicazioni che, anche se non propriamente memorabili e di successo, sono sempre e comunque state oggetto di ogni attenzione anche da parte, se non altro, dei suoi stessi colleghi più famosi.

Dare - Blood from a Stone

L’album rinnegato!!! Già, se si potesse porre la domanda di quale degli album registrati dai Dare è quello da mettere in disparte, il buon Darren Wharton sceglierebbe sicuramente il qui recensito “Blood from a stone”, e questo non perché il versante compositivo presente all’interno dei solchi di questo disco è da denigrare senza mezze misure, tutt’altro, ma soprattutto perché non rappresenta al 100% l’anima artistica del combo inglese.
Artefici di un debutto discografico da incorniciare, il celebrato “Out of the silence”, il secondo platter di casa Dare è il frutto di una “trasmutazione” artistica senza precedenti, figlia putativa delle pressioni, a volte davvero imbarazzanti, di una major, la A&M, che voleva trasformare i cinque nella next big sensation, cercando di collocarli all’interno di un mercato discografico reso orfano dalla dipartita dei Bon Jovi.

Heartland - Heartland

Come abbiamo avuto modi di dire in più occasioni, la scena melodica inglese è sempre stata caratterizzata dalla capacità di musicisti ricchi di talento che hanno avuto sempre il gran rimpianto di essere nati dall’altra parte dell’oceano, anche perché forse, e ripeto forse, partire con l’handicap di dover conquistare e scalare le classifiche di preferenza del popolo melodico americano, partendo da una nazione associata ad un genere musicale tendenzialmente contrastante come l’heavy metal classico, non sarà stato certo facile.
Dare, Stangeways o gli stessi FM solo per citarne alcuni, erano tutte formazione che, nonostante il valore intrinseco e la qualità di una proposta musicale di alto rango compositivo, non hanno mai goduto dell’appoggio incondizionato del pubblico e della stampa specializzata, soprattutto per quel che concerne quello del vecchio continente, finendo inspiegabilmente per perdersi nell’oblio dell’indifferenza, riesumati successivamente da piani aziendali che, ben poco, hanno da spartire con il puro spirito artistico degli esordi.

FM - Tought it Out

Capolavoro assoluto, classico esempio di uno dei cinque dischi da portare su di un'isola deserta, Tough It Out è un disco se non altro degno di menzione, e che tutti gli hard rockers dovrebbero almeno rivalutare, anche perchè gli autoiri di questo disco assoluto, ovvero gli inglesi FM, big band che più d'ogni altri, se si eccettuano gli inossidabili Shy, seppe riscostruire, e con un certo successo, il suono americano in terra d'albione, arrivando a pubblicare una manciata di ottimi platters che solo l'opera impietosa del fato ha saputo rilegare fra le memorie sbiadite di molti instancabili romantici.
Già, questo Tough it Out del 1989, rappresenta senza alcun dubbio il massimo sforzo a livello economico che la Epic/Cbs era riuscita a mettere sul campo per spingere la band sul mercato americano, un album che, dati alla mano, aveva tutte le carte in regola per scalare le classifiche di vendita e di gradimento, potento contare su di una produzione sfavillante ad opera del mago Neil Kernon, il mixaggio di Nigel Green (Def Leppard), nonchè sul contributo a livello di songwriting del buon Desomnd Child, della coppia formata da Judith e Robin Randall (Starship), nonchè sull'operato del sapiente paroliere Jess Harms (Eddie Money), ma che, con il senno del poi, fallì irrimediabilmente nel suo intento.

Red Dawn - Never Say Surrender

Uno dei classici minori della scena Adult Oriented Rock, il debuttto, nonchè unico parto discografico, dei newyorkesi Red Dawn, rappresenta senz'ombra di dubbio il classico fenotipo del disco sottovalutato e denigrato dai media all'epoca che meriterebbe, almeno questo, di essere riascoltato e comparato con l'enorme quantità di platter più o meno validi che nell'ultimo periodo si accalcano con sempre più foga sulle pagine dei magazine nostrani, e dai quali si differisce sensibilmente per l'enorme mole di ottimi fraseggi in campo puramente musicale nonchè per il gusto compositivo messo in mostra da questo ensamble di cinque elementi. 
Uscito nell'anno di grazia 1994, ovvero quando tutto il mondo discografico sembrava essere attratto da ben altre sonorità e proposte artistiche, Never Say Surrender rappresentava, e forse rappresenta ancora, quanto di meglio una band dedita ad una riproposizione quasi pedissequa dei dettami melodici possa essere in grado di offrire fra le trame di un unico disco, ovvero una manciata di brani tecnicamente e strutturalmente ineccepibili, conditi da aperture melodiche veramente ad effetto, ritornelli irresistibili e refrain altamente ineccepibili, tutto condito dalla classe innata in possesso da questa vera e propria big band. Infatti i Red Dawn, formati attorno al talento artistico, musicale e compositivo del maestro dei tasti d'avorio David Rosenthal, famoso per il suo trascorso alla corte del man in black per eccellenza Ritchie Blackmore e dei suoi Rainbow, potevano contare sull'apporto di un manipolo di musicisti d'alto rango come il vocalist, ed ex Network, Larry Baud dotato di un timbro vocale caldo e suadente, del misconosciuto, ma tecnicamente eccelso, guitar hero Tristan Avakian, nonchè dell'apporto ritmico della coppia Chuck Burgi e Greg Smith, entrambi musicisti dai trascorsi in band come Zeno, Joe Lynn Turner e chi più ne ha, più ne metta.

Tall Stories - Tall Stories

Indispensabile l’omonimo album d’esordio dei newyorkesi Tall Stories, il classico esempio del disco che, a prescindere dal genere e dai gusti musicali, non dovrebbe assolutamente mancare nella collezione di qualsiasi rocker degno di questo appellativo, costi quel che costi, anche perché cosa poter chiedere di più ad un platter che sprigiona nel contempo eleganza, raffinatezza e gusto melodico, cura per gli arrangiamenti ed un songwriting pregno di rimandi ai maestri del genere?
Chiamatelo pure Adult Oriented Rock o techno-pop, sta di fatto che Tall Stories, nei suoi quarantacinque minuti scarni di durata, riesce nella non facile impresa di avvolgere l’ascoltatore in un fascinoso, quanto delicato abbraccio, che partorisce ad ogni incontro meravigliose percezioni sensitive, e chi ha ascoltato almeno una volta questo piccolo capolavoro, non potrà che darmi ragione.

From the Fire - Thirty days, dirty Nights

Risploveriamo anche quest'ennesimo nome da culto più assoluto fra il popolo di rockers del vecchio continente, anche perchè il moniker dei From the Fire risuona ancora in maniera altisonante per chi, sottoscritto compreso, ha da sempre considerato questo Thirty Days, Dirty Night un piccolo gioiello di maturità artistica asservita ad una qualità compositiva e ad una certa duttilita stilistica che, quasi da sempre, hanno caratterizzata una scena musicale come quella americana legata a doppia mandata nella rievocazione di un certo sound corposo e vitale pregno pur sempre di rimandi ottantiani e che, incurante delle mode e degli stili musicali che si sono avvicendati con scarsi risultati, ha saputo mantenere una certa veridicità di fondo. E proprio dai magici anni ottanta proveniva il fulcro centrale dei From the Fire, che, formatisi per volere del talentuoso, ma allora praticamente sconosciuto, vocalist J.D. Kelly e dal più navigato guitar player Tommy Lafferty, già in forza ai cult heroes Voodoo X del coloured biondo crinito Jean Beauvoir, per il loro disco di debutto si circondarono di un manipolo di ottimi musicisti da studio provenienti dall'hinterland newyorkese che solo più tardi conobbero più fama come il futuro tastierista della band del mitico J.L. Turner, Paul Morris.

Dan Red Network - Dan Red Network

“Prodighiamoci affinché non ci siano più muri fra di noi”!!!
Uno slogan da adottare per impegnarsi a lottare contro ogni forma di razzismo e di diversità fra le diverse etnie del genere umano, usando l’enorme potere divulgativo della musica come unico viatico, un’utopia? No, se solo avete provato ad ascoltare almeno una volta i Dan Reed Network da Portland.
Una formazione questa, che faceva della diversità il proprio punto di forza, riunendo sotto un’unica bandiera, un manipolo di ottimi musicisti provenienti da diverse etnie, e da altrettanti percorsi di formazione artistica, e che, proprio da questo incontro di background musicali ed umani alquanto eterogenei, traeva spunto per dare vita ad un percorso sonoro incentrato su una certa creatività, che li rendeva unici in campo prettamente musicale, grazie ad una policromia di suoni totalmente liberi da restrizioni e da preconcetti di sorta, un incrocio nel quale confluivano elementi che arrivavano in egual misura sia dal funky, che dal rock più melodico e radiofonico, che dalla black music di scuola prettamente anni ’70, e che, naturalmente, portavano in dote un melange di alchimie ritmiche sensuali ed al contempo inebrianti, alle quali era impossibile sottrarsi.

Notorius - Notorius

Quale è di solito il destino delle big band?
Si, esatto, quello di avere un’esistenza discografica breve, così breve che, il più delle volte, si risolve con la pubblicazione di un unico grande disco, a volte magari snobbato e denigrato dalla critica colta, ma amato visceralmente dai fan di una certa musica per intenditori, proprio come nel caso del disco di debutto dei qui recensiti Notorious.
Già, non so se a quelli che si stanno accingendo a leggere questa recensione, il nome della band inglese possa in qualche maniera risultare familiare, anche se gli artisti che si celano dietro questo ambiguo moniker, sono naturalmente ben conosciuti al popolo heavy rock nostrano che non potrà sicuramente soprassedere di fronte alle qualità interpretative di un vocalist carismatico come il grandissimo Sean Harris, proveniente dalle fila dagli altrettanto fenomenali Diamond Head, nonché sul ruolo esercitato dall’enigmatico Robin George, pregevole polistrumentista/compositore con un passato fra le fila della Byron band prima, e dei Magnum poi, nonché solista con alcuni pregiati album alle spalle.

Keel - Keel

Volete un album che riassuma nel suo insieme tutta la spensieratezza e la gogliardia degli anni Ottanta con l'essenza vera e pura del sound americano di quel magico periodo? Lo avete trovato se riuscite a mettere le mani su una copia di questo Keel dell'omonima band statunitense. Un vero e proprio manifesto sonoro di un'epoca questa quarta prova da studio degli americani Keel è il classico esempio del disco da possedere a tutti i costi e da assaporare brano dopo brano, passaggio dopo passaggio, da amare visceralmente e con passione. Formati attorno alla figura carismatica del poliedrico vocalist Ron Keel, con un passato trascorso negli Steeler accanto al semi-dio svedese Malmsteen, atorno al quale si raggruppano una serie di musicisti di assoluto valore e spessore artistico come nel caso del funambolico guitar player Marc Ferrari, i Keel di quest'omonimo parto discografico, riuscirono a ribadire, ed in maniera alquanto eclatante, quanto di buono avevano precedentemente profuso con il tanto famigerato Final Frontier, album che vedeva alla produzione l'enigmatico Gene Simmons, bass player del "bacio" per antonomasia che, oltre ad occuparsi del lavoro dietro alla consolle, aveva portato la band alla corte della potente major MCA.

Idle Cure - Inside Out

Gli apostoli del pomp rock mistico, ecco come vennero etichettati dalla stampa specializzata all'epoca del loro omonimo esordio gli indimenticati Idle Cure, sicuramente una delle formazioni indecorosamente più sottovalutate della scena Hard melodica degli anni ottanta, un ensamble resosi artefice della pubblicazione di ben cinque splendidi album intrisi di richiami all'AOR sound più classico ed incontaminato, e qualche strizzatina più commerciale derivante da una componente Hard Rock più frizzante e nettamente da classifica, il tutto venato da partiture catchy, cori ammiccanti ed una dose di sfavillanti refrain davvero irresistibili, elementi che comunque avevano da sempre caratterizzato l'intero repertorio della band californiana in questione. Questo Inside Out del 1991, oggetto naturalmente della nostra recensione, ce li fotografa proprio nel culmine della loro seppur breve carriera discografica, presentandoceli al meglio delle proprie qualità artistiche ed espressive, proprio all'indomani della pubblicazione dell'ottimo 2nd Avenue di un anno prima, album che aveva aiutato a ribadire che l'abbandono forzato del fondatore Chuck King, in favore degli Shout dell'idolo Ken Tamplin, non aveva affatto scalfito la qualità del proprio songwriting, ma che anzi aveva spronato i nostri a raggiungere picchi qualitativi forse quasi inaspettati.

Fiona - Squeeze

Gran bel tocco di ragazza la Fiona Flanagan, già, sicuramente fra le migliori female vocalist degli ‘80ies, una fra le poche ad abbinare eccelse doti artistiche, ad un fisico mozzafiato, seconda nella mia personale graduatoria solo alla mitica Alannah Myles, artefice di una carriera tanto precoce, iniziata alla tenera età di sedici anni nei fumosi pub di New York, quanto breve ed intensa, per lei solo quattro dischi all’attivo, tutti pubblicati su major, come il qui recensito “Squeeze” edito nel 1992 dalla Geffen Records.
Un album questo, perfetto in tutte le sue componenti, che cattura l’artista americana nel massimo del suo splendore, e nel pieno di una maturità che, purtroppo, non troverà seguito negli anni a venire, lasciando quell’amaro in bocca che, dopo tutti questo tempo, non si è riuscito a mitigare, anche perché, come detto in precedenza, questo disco aveva veramente tutti i numeri per lanciare il nome dell’artista del New Jersey, nelle top charts delle classifiche internazionali, presentando un parterre de roi di tutto rispetto, che vedeva coinvolti nel progetto il meglio della crema del genere melodic rock per antonomasia.

Eric Martin Band - Sucker for a pretty face

Eric Martin, un nome prestigioso per i veri cultori della scena hard rock mondiale, sinonomo di qualità e duttilità compositiva, insomma un interprete che, sin dalla più giovane età, ci ha allietato con dei lavori degna della massima attenzione che, il più delle volte, hanno rappresentato delle vere e proprie pietre miliari del genere melodico per eccellenza. Sicuramente quelli che stanno leggendo questa recensione, conosceranno il buon Eric come lead vocalist della all star band dei Mr. Big, band con la quale il nostro ha comunque ottenuto i maggiori riconoscimenti su scala internazionale grazie ad hit del calibro di “To be with you” o della cover di Cat Stevens “Wild world”, mentre pochi saranno a conoscenza di questa Eric Martin Band primo e vero ensamble con il quale il singer originario di San Francisco si presentò al grande pubblico con un album che, nonostante le enormi forze messe in campo dalla Elektra records, produzione a cura del supervisore Kevin Elson e una band di ben sei elementi, fra i quali figurava il futuro drummer dei Tesla Troy Lucchetta, non servirono a far decollare un platter che, di li a poco, sarebbe presto finito fuori catalogo.

Dan Lucas - Canada

Si, dobbiamo farcene una verità, purtroppo anche l’immenso firmamento del rock melodico è costellato da stelle di piccola e media grandezza, un universo popolato da artisti che, nonostante abbiano goduto di poca considerazione da parte dei media, hanno cercato di lasciare il segno del proprio passaggio con opere che, almeno queste, dovrebbero perlomeno essere rivalutate.
Prendete ad esempio il carismatico Dan Lucas, all’anagrafe Lutz Salzwedel, eclettico vocalist di origine tedesca con un passato speso fra le fila dei seminali Karo, formazione a torto considerata di seconda fascia, che era riuscita solamente a sfiorare l’agognata notorietà, grazie ai riscontri ottenuti dal loro “Heavy Birthday”, un gran bel disco di melodic rock per veri intenditori, pubblicato nel 1988 dalla Frontnow Records, ristampato dalla MTM nel 2005 con l’aggiunta di ben due bonus track, e dei quali naturalmente, il buon Lutz, con il suo tipico timbro caldo e sensuale, rappresentava senz’ombra di dubbio ben più di una semplice punta di diamante.

Roulette - Better Late Than Never

Meglio tardi che mai? Sicuramente meglio tardi!!!!
Veramente curiosa la storia che si cela dietro i Roulette ed il loro disco d’esordio “Better late than never”, sorta di raccolta antologica che raccoglie all’interno di un unico contenitore, il meglio della passata produzione della band svedese, rimasta nel limbo per decenni, ed omaggiata in quest’occasione con la seconda stampa di un disco che, nella prima tiratura ad opera della AOR-FM records, ha segnato un sold out inaspettato nel giro di poche settimane.
Vicissitudini curiose dicevamo, anche perché il futuro della band, all’epoca avrebbe potuto prendere pure un’altra piega, visto l’interessamento di una mejor come la CBS che, nel 1991 aveva opzionato il gruppo per un album di debutto, ma che, dopo due sole settimane di registrazione, e tre brani registrati, gli preferì i più proficui Rat Bat Blue.

Androids - Let it all out

Storie di band rimaste al confine per molto tempo, quella che si legano i finlandesi Androids sono le classiche vicissitudini che narrano di una compagine, e del loro disco di debutto che, pubblicato in un'epoca di transizione, ovvero l'inizio degli anni novanta, vide la luce dopo mesi e mesi di gestazione, grazie all'operato di una label indipendente che, com'è facile prevedere, non riuscì a garantire una degna distribuzione ad un disco che, naturalmente, era divenuto la classica reliquia in campo melodico.
Amatissimi nella loro terra natia, nella quale contano ancora un seguito di pubblico che non si è mai arreso, neanche di fronte all’evidenza dello split prematuro, ma sconosciuti, o quasi, nel resto d’Europa, gli Androids erano la classica formazione che reincarnava al meglio lo spirito e le sonorità dell'hair metal americano di fine anni ottanta, combinando alla perfezione una certa vigorosità espressiva ed avvincenti aperture melodiche, fra reminiscenze che sapevano in egual misura di Shotgun Messiah, quelli dei primi due dischi, Treat, Sha Boom e White Lion.

Duke Jupiter - White Knucle Down

Davvero curiosa la storia che si cela dietro al trascorso artistico dei newyorkesi Duke Jupiter, formazione a torto considerata come una meteora della scena melodica americana, e questo nonostante la pubblicazione di sette album ufficiali, quattro dei quali rilasciati sotto major, i primi tre per la Mercury, il quarto su CBS, espediente questo che ci fa capire quanto, all'epoca, dovesse essere più importante godere di una giusta esposizione mediatica, piuttosto che di un prestigioso contratto discografico.
“White Knuckle Ride” sesto sigillo ufficiale per i nostri, rappresentava per i nostri il classico disco della rinascita, con una band intenzionata a lasciarsi dietro il proprio trascorso artistico, non proprio idilliaco, e a cominciare una nuova carriera, e questo sia grazie all'ingresso del nuovo bassista Ricky Ellis, già dal vivo con i Lynyard Skynyard, che sostituiva il defunto George Barajas, un contratto di due album con la Marocco Records, sorta di sub label rock della ben più nota Mowtown Records, ed uno stile musicale sicuramente più fluido, e dal vago stentore AOR che si poneva come ipotetico trait d'union fra presente e passato.

B.E. Taylor Group - Our world

Altro disco minore della scena melodica dei primi anni ottanta “Our world”, terzo ed ultimo sigillo della Ben E. Taylor Band, è sicuramente uno dei platter più rinomati del folto sottosuolo statunitense, reperibile, non solo in modo illegale via Japanese Reissue Records prima, e First Strike Records poi, ma anche in veste ufficiale, grazie al lavoro della sempre attenta Yesterock che, in collaborazione con la Sony Germania, ha reso disponibile una versione ri-masterizzata del disco impreziosito dalla presenza di ben due bonus track.
In azione nella prima metà degli '80ies, e con quartier generale in quel di Pittsburgh, Pennsylvania, la band  formata attorno al talento naturale del compositore, polistrumentista nonché produttore William Edward Taylor, raggiunse un barlume di notorietà grazie soprattutto alla ballad “Karen” entrata di diritto nella top 100 di Billboard, e ad uno stile compositivo elegante e raffinato, sempre in continua evoluzione, che riusciva ad inglobare, all'interno di un unico tessuto sonoro, aperture pop rock da una parte, e riminiscenze melodic rock/AOR dall'altra, il tutto caratterizzato dall'abilità ed alla sinergia che si era venuta a creare fra i musicisti della stessa band, fra i quali ci preme ricordare l'apporto fornito dall'ottimo chitarrista Rick Witkowski, futuro Crack in the Sky e Donnie Iris Band.

Return - Fourplay

Certo, non saranno stati fondamentali degli Europe, ma meriterebbero almeno la loro stessa considerazione ed invece... 
Beh, a parte il successo di massa nella loro terra natia, i norvegesi Return non hanno goduto della stessa esposizione internazionale dei più rinomati cugini svedesi, rimanendo relegati ad una posizione troppo marginale, e questo non certo per la pochezza delle loro pubblicazioni discografiche, soprattutto quelle del periodo mediano, tutt'altro.
In attività sin dal lontano 1985, la formazione con base operativa nella laboriosa Stagen, seppe costruirsi , nel giro di pochi anni, una solida reputazione, imperniata attorno ad una verve compositiva in continua evoluzione esponenziale, e ad album pregni di locuzioni melodiche come ad esempio il debutto “To the top”, ed il potenziale gioiello “Straight to the line”,

Jimmy Martin - Wild at Heart

Come back inaspettato, almeno per il sottoscritto, quello fatto registrare dal talentuoso vocalist lussemburghese Jimmy Martin che, i più attenti di quelli che stanno leggendo questa disamina riassuntiva, ricorderanno dietro al microfono dei francesi Fisc, con i quali registrò ben due album, per poi debuttare come solista grazie al promettente “The Rhythm of Life” del 1992, al quale fece da eco il ben più rinomato “Kids Of The Rockin‘ Nation”, edito tre anni più tardi dall'allora iperattiva Long Island records.
Un apparente silenzio mediatico lungo ben diciotto anni hanno separato l'artista europeo dai suoi fan più accaniti, anche se, a leggere dietro le righe di questo ritorno ufficiale, sembra quasi che il tempo non sia per niente passato, anche perchè “Wild at heart” riprende quel discorso compositivo interrotto a metà anni novanta, e se vogliamo, ne amplifica la portata, inglobando alcuni elementi più moderni, senza per questo rinnegare le proprie radici formative sempre e comunque ramifiacate attorno ad una concezione classica.

sabato 26 marzo 2016

Burn - So far. So bad

Solo un altro gruppo di ragazzi inglesi che provano a suonare come una band americana? Un pensiero comune a molti giornalisti del settore che si prestarono ad ascoltare, e recensire, il disco di debutto degli albionici Burn, ensamble che, a parte l'ovvio monicker di discendenza rosso porpora, aveva poco, o niente, da spartire con molte delle formazioni provenienti d'oltremanica in azione dell'epoca, arrivando invece a sfoggiare un versante compositivo ebro di locuzioni melodiche dall'alto potenziale deleterio che, grazie anche a doti strumentali tutt'altro che di secondo piano, ed al carisma di un singer di razza come l'ottimo Geff Odgen, avrebbero potuto condurre la band verso i piani alti dell'establishment musicale del vecchio continente, ma che, invece, finì proprio per tradirli dopo sole poche release ufficiali, anche perchè "non puoi battere gli Yankees al loro stesso gioco"

Therry Condor - Stuff like That

Disco magniloquente!!! La nostra disamina riassuntiva potrebbe benissimo chiudersi qui, anche perchè “Stuff like that” è un disco che, lo suggerisce il titolo stesso, dovrebbe essere apprezzato dagli amanti della musica non importa il genere o lo stile preferito, tanta e tale è la mole di classe cristallina elargita dall'artista in questione, ma tant'è...
Di origine italo-germaniche, ma cresciuto prevalentemente in Svizzera, Thierry Condor è un valido musicista da studio, conosciuto al grande pubblico soprattutto per le sue innumerevoli partecipazioni televisive negli anni novanta, nonché per la pubblicazione di alcuni album davvero niente male, da ricordare “A Christmas Eve in L.A” del 2006, ai quali fa da eco la realizzazione di quest'ultima fatica da studio, che vede l'artista in questione cimentarsi nella riproposizione di alcuni classici del genere west coast, scritti ed interpretati da artisti di assoluta fama internazionale come ad esempio

Shadow King - Shadow King

Relegato inspiegabilmente fra i ricordi sbiaditi degli appassionati del genere melodico, il disco di debutto dei fenomenali Shadow King, rappresenta il classico esempio di come a volte si possano commettere degli errori irreparabili se ci si lascia manipolare incoscientemente dalle imperanti leggi di mercato, leggasi pure MTV, che, quasi costantemente, ci impongono i nuovi fenomeni cercando di “valorizzare” di volta in volta l’esplosione delle nuove tendenze musicali del momento.
Un disco dunque che, a quasi tre lustri di distanza dall’uscita ufficiale, brama ancora famelica vendetta, anche perché sia per la qualità del songwriting presente, sia per il carisma dei vari musicisti chiamati in causa per l’occasione, quest’album non può di certo passare inosservato.

Return To Zero - Return to Zero


Return To Zero, ovvero la creatura artistica che vedeva riuniti sotto lo stesso monicker due mostri sacri della scena melodica americana cone il talentuoso chitarrista Berry Goudreau ed il vocalist Brad Delp, rispettivamente chitarra e voce dei Boston i quali decisero di tornare ad incrociare i propri destini artistici, dopo l'esperienza in studio con gli Orion the Hunter, band che vedeva il buon Delp nel ruolo minore di backing vocals,
Anche se in molti hanno definito lo stile musicale degli RTZ come una sorta di versione easy degli stessi Boston, possiamo assumere con tutta sincerità che, pur trovando diversi punti di contatto con quanto proposto dalla band madre, e non avrebbe potuto essere altrimenti, la musica che si cela fra i solchi di questo disco, possiede, non solo quella marcia in più rispetto a “Walk on”, ma in certi frangenti riesce a toccare picchi di straordinaria eccellenza qualitativa.

Roadhouse - Roadhouse

Storia di band dall'enorme potenziale, artistico, e commerciale, sacrificate sull'altare del music business per motivi apparentemente inspiegabili. 
Si, ci risiamo un'altra volta: anno di grazia 1991, anche la scena musicale inglese stava letteralmente mutando la sua fisionomia, così come stavano cambiando i gusti musicali di molti degli appassionati dell'epoca, nonostante la rivista Kerrang accogliesse con grande entusiasmo tutto quello che proveniva dalle natie sponde, già, anche se, con i qui recensiti Roadhouse, il gioco era facile, anche perché, non solo i nostri possedevano tutti i numeri per poter fare bene sulla lunga distanza, ma potevano contare sull'apporto del talentuoso chitarrista Pete Willis, proveniente niente meno che dalle fila dei Def Leppard dei quali, per tempo, era stato uno dei principali songwriter.

Jimmy Barnes - Two Fires


Scozzese di nascita, australiano d'adozione, Jimmy Barnes è stato, o forse lo è ancora, una delle più belle voci del panorama rock mondiale, il suo timbro caldo, quell'espressione roca, a tratti sensuale, ha saputo conquistare non solo l'audience del paese che più di ogni altro lo ha reso famoso, ma è riuscita ad influenzare una generazione di singer che, al suo carisma, si sono ispirati.